Mentre esce nelle sale Taxi Teheran, piace rendere omaggio al piccolo grande film d’esordio di Jafar Panahi, anch’esso ambientato per le strade di Teheran giusto vent’anni fa ♦
Mentre esce nelle sale Taxi Teheran, premiato con l’Orso d’Oro all’ultimo festival di Berlino, piace rendere omaggio al piccolo grande film d’esordio di Jafar Panahi, anch’esso ambientato per le strade di Teheran giusto vent’anni fa: Il palloncino bianco. Un film che vale sicuramente la pena rivedere, per chi già lo conosce; e assolutamente da recuperare, per chi non l’abbia visto finora.
Non che sia facile, visto che non si trova in dvd e neanche viene preso in considerazione, tra una replica e l’altra, dalla programmazione televisiva. Senonché torna buona la regola per cui, quando una cosa sparisce dal mondo reale, prima o poi la ritrovi in internet; e alla fine qualcuno l’ha postato su YouTube. Così, volendosi accontentare della qualità non eccelsa del filmato e forse di qualche taglio, è possibile farsi un’idea di questo gioiellino. In attesa che, prima o poi, ci si decida a redistribuirlo.
Nel film si seguono le peripezie, per le vie di Teheran, nel giorno del capodanno iraniano, di una bambina che vuole a tutti i costi un pesciolino rosso ma perde il denaro che dopo tante insistenze la mamma le aveva dato per comprarlo. Guidato dall’incrollabile ostinazione della bambina, il regista mette in scena una storia esile, fatta di inezie, combinando commedia umana e un pathos crescente attorno all’avventura di questa moderna cappuccetto rosso spersa nella foresta dei chiassosi dintorni di casa sua.
Lo sguardo dello spettatore è portato naturalmente a identificarsi con i primissimi piani della bambina, ora incapricciata, ora speranzosa, ora impaurita, ora sollevata, ora desolata. Il punto di vista è, non a caso, proporzionato alla soggettiva infantile, per cui gli adulti entrano nella storia come figure psicologicamente sovrastanti che ostacolano il pieno soddisfacimento della caparbia volontà della piccola protagonista; mentre il ruolo risolutore nella storia è affidato a piccoli eroi, come il fratellino maggiore a cui la bimba finisce per doversi affidare. Un capolavoro di pedinamento infantile che funziona anche perché Jafar Panahi si dimostra superbo selezionatore e direttore di bambini, che sono attori non protagonisti come tutti nel film. Questo spiega e giustifica il facile accostamento al neorealismo nostrano che qualcuno ha fatto, evocando per esempio l’Enzo Staiola di Ladri di biciclette.
In effetti, al seguito dei ragazzini di Teheran percorriamo il mondo degli adulti nei diversi episodi che arricchiscono la fabula coi loro intrecci (tessitura evocata nella scena corale di apertura del film). Attraversando una città brulicante nell’attesa della festa, le scene fanno sorridere e commuovere e pensare, ma soprattutto offrono altrettante viste sulla contemporaneità iraniana dei ceti meno abbienti: il babbo che rientra a casa stanco dal lavoro, l’incantatore di serpenti, il sarto scorbutico e il suo cliente petulante, il soldato che ha lasciato la campagna per la vita militare, il giovane immigrato afgano; e poi i mille oggetti della quotidianità, le botteghe, i capannelli di gente e i mercanti di strada.
E qui si fa valere anche la scrittura del film, sceneggiato a quattro mani dall’allora esordiente Jafar Panahi assieme al suo maestro. Nel 1995 infatti il regista de Il palloncino bianco si presentava al pubblico di Cannes con qualche precedente televisivo all’attivo e con un’unica referenza, l’esser stato l’anno prima assistente di Abbas Kiarostami per Sotto gli ulivi, uno dei capolavori del maestro iraniano. Del cinema di Kiarostami, l’esordio di Panahi condivide una formidabile empatia nei confronti del genere umano, ma anche l’uso raffinato e consapevole di una scrittura cinematografica capace di nutrirsi della povertà di mezzi, di trovare il pathos nelle piccole cose, di elevare la realtà e condensarla in un’immagine concreta e lirica assieme. Come l’immagine del palloncino bianco: preannunciata dal titolo, sfugge lungo tutto il film per farsi meglio riconoscere nello splendido finale sospeso e venato di malinconia. Non sorprende che la sciccosa Quinzaine des Réalisateurs di Cannes abbia tributato a Le Ballon Blanc “una cascata di premi”.