Scenari patinati e una sceneggiatura dallo sviluppo misero affogano nell’inverosimiglianza la trasposizione cinematografica di un racconto di Doris Lessing ♦
Affascinante? Provocatorio? Scomodo? Magari, si potrebbe dire. Un paio di anni fa, il lancio del film si basava sull’assunto scandaloso della storia, che detta in soldoni consiste in ciò: due amiche inseparabili, giunte alla soglia dei cinquanta in forma invidiabile, incrociano relazioni sessuali ciascuna con il figlio dell’altra, senza traumi eccessivi e in barba ai partner coetanei.
Non c’è dubbio che il tema possa intrigare un narratore, ricco come è di implicazioni psicologiche, etiche, sentimentali, sociali, esistenziali. Qualche spirito di artista sensibile e libertario avrebbe ben potuto ricamare sull’educazione sentimentale in salsa edipica dei due giovani, sull’estremo superamento di convenzioni sociali e di tabu da parte di due donne mature, sulle implicazioni omosessuali e incestuose di tutto ciò. Purtroppo a mettere in scena il racconto di Doris Lessing Le nonne è una mediocre regista francese, Anne Fontaine, suppergiù coetanea delle sue protagoniste e piacente anch’ella, che dopo vari ripensamenti e spaesamenti ha collocato la vicenda in Australia, in una miliardaria villa affacciata su un mare da Laguna blu, portando con sé un bagaglio di stereotipi indigesti e di banalità patinate, senza nemmeno prendersi il disturbo di dirigere gli attori.
Basta infatti, alla regista, filmare due attrici vistose come Naomi Watts e Robin Wright, di cui si ammira lungo tutto il film la bellezza senza tempo, il fisico da fotomodelle seppure agées, le bionde capigliature e gli sguardi luminosi, appena appena offuscati da rughette e couperose. È bastato poi alla Fontaine affiancare a cotali star due giovani virgulti iperpalestrati, di cui si potrebbe dire – parafrasando quanto Sergio Leone diceva di Clint Eastwood – che dispongono di due sole espressioni, con la tavola da surf e senza la tavola da surf.
Così il film ispirato a The grandmothers (Le nonne), che diventa Perfect mothers nella rilettura cinematografica (per il pubblico francese; ma invece Adore sul mercato statunitense e Two mothers in Italia… scambi globali!) non riesce ad aggiungere nulla di interessante alle premesse, a parte lo sviluppo narrativo schematico e prevedibile per quanto inverosimile. La caratterizzazione dei quattro protagonisti è praticamente assente, tanto è facile confonderli (chi è il figlio di chi? chi va a letto con chi?). I loro rapporti sono disegnati da una logica combinatoria condita da sottolineature del dialogo tanto grossolane da sfociare nel ridicolo. Nessuna meraviglia se, come riferisce l’International Movie Database (imdb.com), alcuni passaggi più “intensi” del dialogo sono stati accolti con scoppi di risate dal pubblico del Sundance Film Festival.
Oltre il ménage à quatre ruota un contorno di scialbe apparizioni secondarie, presenze ininfluenti anche quando chiamate a imprimere alla vicenda le sue svolte: il marito becco dell’una, che si separa e si trasferisce a Sidney; lo spasimante bollato come noioso dall’altra, che si convincerà che Lil e Roz siano lesbiche; le fidanzatine dei figli Ian e Tom, scelte per non reggere nemmeno alla lontana il confronto con il sex appeal delle suocere (alle quali comunque imporranno infine dei nipotini a cui far da nonne, ma sempre in bikini e pareo).
Insomma, una sceneggiatura dallo sviluppo misero che svela il disinteresse dell’autrice per le sfumature e le contraddizioni umane. Cosa resta allora di tutti questi scenari esotici, ozi dorati, corpi levigati in cui non vibra un’emozione? Resta la sensazione che in fondo il film si nutra del bisogno, indotto dallo star system e a cui non sanno sottrarsi la regista e le sue attrici (Naomi Watts è anche produttrice esecutiva), di convincersi e convincere che per fermare il tempo basti nutrirsi di sguardi ammirati e dotarsi di un toy boy. Un elisir che fa tristemente il paio con la vecchia scorticata vista di recente nel film di Garrone tratto da Basile.
Ci si chiede come spiegare il coinvolgimento nella scrittura di Christopher Hampton, la cui reputazione resta legata all’Oscar ottenuto per la sceneggiatura di un capolavoro di sfumature, trasgressioni e dialogo d’attori come Le relazioni pericolose. E ci si chiede perché le recensioni cosiddette “critiche” falliscano così spesso nell’intercettare le trivialità, dicendo di vedere esplorazioni della psiche dove non esistono e allineando i propri giudizi a quelli del pubblico meno accorto.