Nel solco di altri recenti film di successo, Perfetti sconosciuti è una commedia che si svolge a tavola, tutta giocata attorno all’oggetto-feticcio dei nostri tempi ♦
Il gioco al massacro tra ospiti, in salotto o a cena, non è certo uno spunto inedito al cinema. Solo negli ultimi anni, dopo l’esempio illustre di Carnage (Polanski, 2011), seguito a distanza di un anno dall’esilarante commedia Le prénom portata sullo schermo da Alexandre de La Patellière, questo genere di matrice teatrale ha contagiato l’industria cinematografica del nostro paese che ha già sfornato a distanza ravvicinata almeno quattro titoli riconducibili a un impianto scenico similare (e tra questi pure Il nome del figlio, remake del precedente francese firmato da Francesca Comencini).
L’ultimo in ordine di tempo è Perfetti sconosciuti. Com’è nella natura del format, anche in questo caso il film poggia meno sulle invenzioni registiche che sulla scrittura, sui dialoghi e sul lavoro d’attori. Su questo piano bisogna dire che l’operazione condotta dal regista Paolo Genovese va in porto brillantemente: il film si vede con piacere e per una buona metà del film si ride di gusto, grazie al dialogo spumeggiante incrociato tra un gruppo di attori simpatici, popolari e ben affiatati (per chi non lo sapesse si tratta di Marco Giallini, Kasia Smutniak – in verità l’unica un po’ fuori parte – Valerio Mastandrea, Anna Foglietta, Alba Rohrwacher, Edoardo Leo e Giuseppe Battiston).
Afferma il regista Genovese che lo spunto da cui è nato il soggetto lo ha ricavato da una frase folgorante di Gabriel García Marquez. Il quale pare solesse affermare che “ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta”. Dove la chiave sta proprio in quell’“ognuno”: ci dice che la dimensione della segretezza è un argine necessario al vivere di ogni essere umano sulla terra, e non soltanto di chi ha davvero qualcosa da nascondere.
Cosa succede dunque se, per un apparentemente innocuo gioco di società, sette amici di vecchia data decidono durante una cena di condividere il contenuto dei rispettivi telefonini? Perfetti sconosciuti lo racconta collocando la cena in una notte di eclisse di luna, ambientandola nel solito interno borghese di gusto urban chic, catturando l’attenzione dello spettatore con una raffica di battute che disegnano il gruppo di amici e i rapporti incrociati tra le coppie.
Brillantemente impostato, il gioco però a un certo punto mostra la corda. E non solo perché l’incedere degli eventi è meccanicamente scandito dallo squillare dei telefonini a rotazione. Ma anche perché l’intreccio di segretezze che il gioco mette in luce è costruito per accumulo, in misura tale da far perdere di credibilità alla stessa premessa della storia: di fronte a tutte queste reticenze e trasgressioni, che sfociano in qualche caso in una doppia vita a mezzo telefono, come è mai possibile che nessuno dei sette commensali faccia un serio tentativo di sottrarsi al gioco?
E qui si mostra il limite di un film costruito sulla ricerca talvolta facile di situazioni comiche, seguite poi da moralistiche rese dei conti. Più che di García Marquez si percepisce l’eco della solita commedia italiana un po’ greve (vedi la gag del selfie collettivo interrotto dal whatsapp “Ho voglia di scopare”), dove lo smartphone, oggetto feticcio dei nostri tempi, vituperata “scatola nera delle nostre vite”, è insieme deus ex machina e oggetto di identificazione per lo spettatore – che forse anche per questo è corso in massa a vedere il film.
Peccato per questo limite, perché la scrittura del film ha diversi pregi e torna a volare più alto nel finale (che non sveleremo), con un guizzo fantastico che si ricollega all’ispirazione iniziale, chiudendo la storia sotto il bagliore della luna ritrovata.