Nel film Il Cliente di Asghar Farhadi, premiato a Cannes, il meccanismo a suspense costruisce un puzzle di verità soggettive e falsità presunte, progressivamente rivelate, di modo che alla fine le certezze lasciano luogo a un castello di domande dalle molte possibili risposte ♦
Un palazzo sgomberato d’urgenza nel timore che stia per crollare, ed ecco lo spettatore subito dentro il film, il cuore in gola quasi fosse lui stesso a buttarsi a scapicollo per le scale assieme agli inquilini in fuga. Poco dopo, la macchina da presa scopre con una ruspa al lavoro che prosegue minacciosa a sbancare il terreno circostante. È quello che il regista iraniano Asghar Farhadi ha scelto come punto di partenza per il suo film più recente, Forushande (The Salesman). Il prologo preannuncia il tema. Le case di Teheran infatti svolgono un ruolo importante in questa storia e, più ancora che nei film precedenti del regista, entrano nel film da protagoniste. L’evocazione visiva di una metropoli in rapida e disordinata trasformazione è forgiata sullo sguardo e sul giudizio di Farhadi, da lui esplicitato in diverse occasioni, il quale ha definito Teheran “città che cambia ad un ritmo delirante, che distrugge tutto ciò che è vecchio, i frutteti, i giardini, sostituendoli con delle torri.”
Dopo i premi alla sceneggiatura e all’interpretazione maschile vinti all’ultimo Festival di Cannes nel 2016, con Forushande Asghar Farhadi ha realizzato pochi giorni fa la doppietta, aggiudicandosi il secondo Oscar al miglior film straniero, giusto un lustro dopo quello vinto con lo splendido Una separazione (2011).
Cosa racconta, Forushande? Basti ricordare che la storia ruota attorno a una mansarda che la coppia d’attori protagonista del film ha preso in affitto da un amico per trasferircisi dopo l’evacuazione del loro palazzo. Si viene ben presto a sapere che l’appartamento era abitato in precedenza da una donna che vi ha lasciato molte, troppe tracce di sé. Attorno all’ingombrante assenza della donna sale l’inquietudine, inizialmente senza un oggetto ben preciso e senza che questo personaggio appaia mai sulla scena. La sensazione di pericolo incombente e di una possibile esplosione di violenza germogliano dentro una quotidianità fatta di traslochi e mobili da sgomberare, piastrelle, lampadine che non funzionano, porte che non si aprono. Poi, un misfatto cruento e pur’esso misterioso segnerà una svolta della storia nel segno della vendetta. E la vicenda avrà il suo epilogo, circolarmente, proprio all’interno dell’appartamento evacuato all’inizio del film.
Portando avanti l’idea di cinema per il quale si è fatto conoscere e apprezzare in tutto il mondo, Farhadi ha costruito il suo ultimo film di nuovo a partire da un meccanismo a suspense che inchioda lo spettatore, richiamando pure in certi tratti la lezione di Hitchcock. Se non che, ancora una volta come nei precedenti About Elly (2009), Una separazione, Il passato (2013), il meccanismo di costruzione della tensione e del disvelamento mira a comporre un puzzle di verità soggettive e falsità presunte, progressivamente rivelate, di modo che alla fine le certezze lasciano luogo a un castello di domande dalle molte possibili risposte. In questo caso: chi è sicuramente colpevole? chi vittima? e, soprattutto, cosa è successo davvero? Provate a chiederlo agli spettatori all’uscita del cinema, e ognuno vi racconterà una storia diversa.
Quella che il critico Emiliano Morreale riconosce come “una lezione di scrittura da fare invidia a un thriller americano” finisce così per disporsi nel giudizio del Guardian tra l’apologo gelido alla Haneke e la metafisica esistenziale del cinema di Antonioni. Eppure, il cinema di Farhadi si sfrange su uno scenario che non ha nulla della convenzionalità del genere e poco pure di astratto e simbolico. Brilla invece per verità dei caratteri e verosimiglianza dell’ambientazione, quasi neorealisticamente immersa nel presente della società iraniana e della sua contradditoria marcia verso la modernità. Seppur limitato dai vincoli censori in vigore nel suo paese, Asghar Farhadi dimostra ancora una volta in Forushande di saper impregnare di critica sociale aspra e rigorosa anche il racconto più intimista e psicologico. “Tutto dipende dalle preoccupazioni e dallo sguardo degli spettatori. – ha affermato – Per chi lo vedrà come un film sociale, gli elementi relativi a questo aspetto saranno i più importanti. Per altri il punto di vista più importante potrebbe essere quello morale, o qualcosa di ancora diverso.”
La messa in scena è in ogni caso ambiziosa, resa ancora più complessa dal suo intrecciarsi con la parallela messa in scena della pièce che Emad e la moglie Rana stanno preparando con la loro compagnia teatrale, Death of a salesman (ecco il titolo del film. Salvo che, con slittamento metonimico certo intenzionale, il commesso è diventato Il cliente nel titolo italiano). Il riferimento al teatro agisce prima come costruttore del milieu sociale dei protagonisti, poi come riverbero delle loro vicissitudini, al culmine nel monologo in morte di Willy Loman che sembra assurdamente all’unisono con il precipizio psicologico e morale della coppia.
Qualche critico ha considerato questo virtuosismo, pur servito da attori eccellenti anche sul palco del teatro, un po’ forzato. Sfumature di giudizio. Importa piuttosto che l’eccesso di ambizione ha giocato un brutto scherzo al regista. Il quale, sollecitato dal dilemma etico dei suoi protagonisti, si è fatto trascinare verso un epilogo troppo lungo e inutilmente insistito, sacrificando sul traguardo quella tensione così perfettamente costruita lungo il film. E questo, per un maestro come anche stavolta ha dimostrato di essere Asghar Farhadi, è pecca più seria.
Ma siccome il cinema non è cosa separata dalla realtà, va riconosciuto a Farhadi di avere scritto un altro finale, stavolta perfetto, alla cerimonia degli Oscar: dove non era presente a ritirare il premio, in protesta verso il Muslim ban del presidente Trump che impedisce ai suoi connazionali l’ingresso negli Stati Uniti. Una dichiarazione del regista, letta da altri sul palco, ringrazia del premio ed esprime sdegno verso una legge definita “disumana”, opponendo alla barbarie la poetica alta e profondamente etica del suo cinema:
Dividing the world into the “us” and “our enemies” categories creates fear. A deceitful justification for aggression and war. These wars prevent democracy and human rights in countries which have themselves been victims of aggression. Filmmakers can turn their cameras to capture shared human qualities and break stereotypes of various nationalities and religions. They create empathy between us and others. An empathy which we need today more than ever.