Da due mesi Maria per Roma, film d’esordio di Karen di Porto, resiste sugli schermi della capitale ed è nel suo piccolo un fenomeno. Merito di uno sguardo schietto e umoristico che prende di mira il caotico presente della Città eterna e le scombinate esistenze di chi ci vive dentro ♦
Qualcosa di buono vive senz’altro in un film come Maria per Roma, pur esile e dalla gittata locale. Questa produzione indipendente, diretta da una sconosciuta quarantenne al primo lungometraggio, all’ultima Festa del cinema di Roma aveva raccolto apprezzamenti non unanimi. Di un’affollata “proiezione con dibattito” officiata da Nanni Moretti, in luglio al Nuovo Sacher, resta un acido resoconto del Fatto quotidiano. Eppure, in questa torrida estate romana arsa dal fuoco e dalla siccità, in sordina il filmino resiste da oltre due mesi sugli schermi e nelle arene della capitale ed è nel suo piccolo un fenomeno.
Merito di un’attrice sicuramente simpatica, che qui si misura da regista e che è anche la protagonista del film in coppia con la sua cagnetta Bea. Karen Di Porto, con sventatezza paragonabile a quella della Maria che interpreta, ha scritto il suo primo vero film sulle minuzie delle sue giornate precarie, senz’altra presunzione se non quella di restituire con freschezza un certo sentimento del tempo presente, e del presente della Città eterna. Ne sa più di qualcosa lei, trasteverina doc, di quel centro storico che non ce la fa a farsi metropoli, affollato di turisti con i trolley, intermediari, cinematografari, attori disoccupati, nullafacenti e attraversato da un’umanità che sembra non avere altro orizzonte se non quello di sbarcare la giornata, “tanto pe’ campà”. Al netto dei difetti da esordiente – innegabili: la recitazione così così, certe lungaggini e ingenuità, le inutili apparizioni del padre morto – Di Porto riesce a cogliere nel segno conquistando la benevolenza dello spettatore che si diverte, poi si immedesima e si riconosce.
Maria per Roma racconta dunque la giornata di Maria David dal risveglio mattutino fino a notte fonda. È un insensato vorticare in giro per la Roma storica a bordo di una vespetta, col cane in braccio e l’auricolare dello smartphone perennemente in funzione, stando dietro a un numero impressionante di incombenze e cambi di programma. Maria cerca di tenere assieme il lavoro che fa per sostenersi – la key-holder, spiega, accoglie i turisti e consegna le chiavi degli appartamenti – e una parallela aspirazione a recitare, risolta anch’essa in grottesco andirivieni per la città nella illusoria speranza di prendere parte a un film.
“Va cercanno Maria pe’ Roma”, dicesi in romanesco di chi perde tempo a girovagare in ricerche vane, buone solo a cacciarsi in qualche pasticcio. Con brillante trasposizione nella concretezza di questo modo di dire, la Maria del film non fa che cercare Maria per Roma tutto il giorno, a scapicollo su e giù per ripide scalette, tra i portoncini del centro storico, inseguendo progetti, sogni e persone, frammentando il tempo della sua giornata fino a notte fonda, quando l’abbandono al sonno le concede la sola provvisoria resa.
Qualcuno ha frettolosamente etichettato il film come l’esordio di una “Nanni Moretti in gonnella”. Niente di più lontano, sebbene anche qui, come nel celeberrimo episodio In vespa di Caro diario, una vespa blu percorra le vie di Roma allegramente tallonata dalla cinepresa. Ma alla guida di Nanni, quello in vespa era un girovagare da flaneur, per una Roma quasi astratta, morettiana, definita attraverso punti di riferimento precisi, urbanistici e culturali.
Un quarto di secolo più tardi, Maria percorre le vie di Roma di corsa, in vespa e a piedi, che solo a guardarla viene l’ansia. Fa tanti incontri, un sottobosco diurno e notturno tratto dalla diretta esperienza della regista e narrato con sincerità e umorismo apprezzabili. Imperdibile, per dire, il bozzetto dell’attempato viveur che vive tra bordo festa e bordo piscina e non fa un cazzo. Il quale, incredibile a dirsi, è interpretato nel film nientemeno che da un ex colonnello del Sismi di epoca andreottiana, tal Paolo Samoggia, che scopriamo assiduo frequentatore di feste romane e tra i protagonisti delle cronache cafonal di Dagospia.
Alle spalle di questo catalogo minimo di varia umanità resta la città, caotica e respingente ma alla fine sempre pronta a riprendersi la scena. “Roma dove guardi guardi è sempre bella”, tira le somme l’amico Cesare, e sarebbe pure vero. Solo che a dirlo suona malinconico e un po’ beffardo. Chi vive a Roma sicuramente riconosce questo sentire, che qui ha toni ben più sinceri che nell’ambizioso affresco kitsch di Paolo Sorrentino. Chi vive a Roma esce dal cinema, si ingorga sul Lungotevere e gli pare di essere ancora dentro il film della Di Porto, pure lui a cercare Maria per Roma.
Il film, si diceva, non è piaciuto del tutto, non è piaciuto a tutti. Certo non gli ha giovato l’incauta sponsorizzazione del direttore della Festa del cinema di Roma, Antonio Monda, che in conferenza stampa si diceva sicuro di replicare con Maria per Roma l’exploit fatto l’anno prima con Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti. Pure, questo esordio ha più di una qualità per farsi apprezzare, non solo all’interno dei confini della capitale dove finora è rimasto confinato.
Ma intanto Karen Di Porto ha annunciato di avere già in progetto un secondo film, ispirato dice al libro Al palo della morte di Giuliano Santoro. Si tratta di un libro-inchiesta su una Roma ben diversa da quella scenografica e per tanti versi incartapecorita del centro storico. Torpignattara, ex borgata a ridosso del Pigneto, luogo di immigrazione e tensioni razziste ma anche terreno di esperimenti di convivenza multietnica e di un fermento sociale e culturale che preme per agganciare la prossima ondata di gentrificazione de’ noantri. Un’altra faccia di Roma, una prova di maturità per la regista che attendiamo al varco con sicuro interesse.