Un po’ film-denuncia sui preti pedofili, un po’ reporter-movie dai precedenti illustri, Spotlight accende i riflettori su ciò che rende indispensabile il buon giornalismo per i suoi lettori ♦
Che storia racconta Il caso Spotlight (Spotlight, 2015), film di Tom McCarthy che si è aggiudicato l’Oscar 2016 come miglior film e migliore sceneggiatura originale?
È un film-denuncia sui preti pedofili, come si legge in molti resoconti? Certo, al centro del thriller c’è un orrendo caso che ha realmente coinvolto la chiesa cattolica di Boston, guidata dal cardinale Law, che per anni ha insabbiato decine e decine di casi di abusi su minori fino alla coraggiosa inchiesta giornalistica che nel 2002 sollevò finalmente il velo sull’intera vicenda. Chi fosse interessato può ricostruirne le tappe (e ripescare gli oltre seicento articoli pubblicati) sul sito del Boston Globe, che per questa inchiesta si è conquistato un prestigioso premio Pulitzer. (In proposito: al pubblico italiano non piacerà apprendere dal film che il cardinale Law dopo lo scandalo fu trasferito a Roma come arciprete emerito della basilica di Santa Maria Maggiore.)
Spotlight è anche un reporter movie, l’ennesimo in un filone cinematografico che, proprio come il western, fonda il mito sulla ricorrenza dei temi (il cinico reporter, la gola profonda, la rotativa in sovraimpressione) e sulle battute memorabili ( “è la stampa, bellezza!”). Da questo punto di vista, il film aggiorna tuttavia la tradizione e la storicizza offrendo una ricostruzione filologicamente attenta delle newsroom dei primi anni Duemila, già investite da crisi economiche e trasformazioni tecnologiche, ma non ancora travolte dall’avvento dei social media.
Quaranta anni dopo l’apoteosi di Tutti gli uomini del presidente, questo epigono sembrerebbe dunque anche celebrare gli ultimi fasti di un modello di giornalismo in via di sparizione dalle redazioni di tutto il mondo. Ha detto per esempio il vero Walter Robinson, il giornalista che nel film ha il volto di Michael Keaton, a Carlo Bonini di Repubblica: “Quindici anni fa al Globe eravamo più di cinquecento. Oggi superiamo a stento i trecento. Le storie che ci chiedono sono di mille parole e perdiamo ore e ore incatenati a twitter, facebook, instagram. Perché, ci spiegano, che senza un nostro pensiero o segnalazione in Rete ogni venti minuti non si va avanti.”. Ecco dunque che Internazionale dedica un articolo a Spotlight e la nostalgia del giornalismo, passando in rassegna i segnali disseminati nel film che conferiscono un’aura vintage alla redazione: che non è più quella del caso Watergate, ma che ancora fa a meno di motori di ricerca, archivi elettronici e smartphone, in anni in cui ancora “il mondo intero dell’informazione è fatto di carta: robusta e paziente”.
Tutto sensato. Ciò che però rende appassionante Il caso Spotlight – dove Spotlight sta per il team di quattro reporter specializzati che il Boston Globe tiene a libro paga per fare inchieste che durano mesi – è il modo in cui il film narra fuori dagli stereotipi, in modo documentato e con un punto di vista interno al mondo dell’informazione, in cosa consista la credibilità del giornalismo, di cosa si nutra e cosa lo rende indispensabile persino nel mondo odierno che sembra volerne fare a meno.
La ricetta ce l’ha chiara il direttore appena approdato al Globe Marty Baron (vero eroe del film, mai idealizzato nell’interpretazione convincente di Liev Schreiber) che prende la guida di un giornale in crisi (“i lettori sono in calo, internet sta intaccando le entrate pubblicitarie e io credo di dover dare un’occhiata seria a questo”) ma, anziché affrettarsi a tagliare le teste, dà la sferzata decisiva ai suoi reporter e con sicuro fiuto per la notizia li mette al lavoro sulla pista giusta.
C’è, tra i tanti, un superbo dialogo a cena tra il neo direttore e il capo del team Spotlight, Walter Robinson, entrambi intenti a prendersi reciprocamente le misure. Interrogato sull’eventualità di nuovi tagli Baron si esprime in modo fermo: “Sarebbe prudente metterli in conto. Però la cosa che più mi preme adesso è trovare il modo di rendere questo giornale indispensabile ai suoi lettori”. “Mi piace pensare che già lo sia”, reagisce orgogliosamente il reporter. “Mi sembra giusto. – scandisce tra le pause il direttore – Dico solo che forse possiamo fare un po’ meglio”.
Da brivido. Il grande sogno di ogni giornalista, giubilano i cronisti alle anteprime del film (così per esempio Roberto Nepoti sulla Repubblica). Misurato e di poche parole, l’alieno venuto da Miami, colui che si è messo in testa di “fare causa alla chiesa cattolica”, Baron mostra ai suoi cronisti e a tutti noi quale differenza passi tra il “coprire” un evento con un pezzo pigro e lo “scoprire” una storia grazie alla curiosità e al porsi domande non ovvie. Esibisce, anche, schiena dritta e spalle larghe per difendere il lavoro dei suoi cronisti e resistere senza scomporsi alle pressioni delle lobby locali che indurrebbero al quieto vivere, tra una partitella a golf e un appuntamento in tribuna a tifare per i Red Socks.
Ci sono poi i quattro reporter della squadra Spotlight, tra i quali spicca il ruolo interpretato da Michael Keaton, più convinto e convincente che in Birdman, che inchioda la sua fonte reticente con la battuta memorabile: “Abbiamo due storie qui. Quella di un clero degenerato. E quella di un gruppo di avvocati che trasforma le accuse in una miniera d’oro. Quale storia vuole che raccontiamo? Perché una la racconteremo.”. E accanto a lui si distingue soprattutto Mark Ruffalo, un vero segugio a caccia di scoop, il quale già nella mimica sfodera quella dote di empatia che – Ryszard Kapuscinski insegna – è la qualità irrinunciabile per ogni buon giornalista.
Insomma, come scrive Linkiesta, “una grandissima lezione sul presente, sul passato e sul futuro del giornalismo”. E, per tutti noi spettatori, anche una lezione di cinema che crede alle sue storie e le sa raccontare.