Tra passione per i manga giapponesi e attenzione al paesaggio urbano e sociale delle borgate romane, il lungometraggio d’esordio di Gabriele Mainetti lancia il cinecomic all’italiana ♦
Su una capitale d’Italia che si avvia impaurita, vilipesa e persino commissariata ad affrontare la competizione elettorale per scegliere il suo prossimo sindaco, ha fatto irruzione a sorpresa un supereroe in grado (per ora soltanto nella finzione cinematografica, ma chi può dire?) di fare trionfare per una volta il Bene sul Male. Proprio come accade nel mondo della Marvel Comics e di Gō Nagai.
Di fumetti e di manga si dichiara in effetti gran patito il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti. Al suo esordio nel lungometraggio, Mainetti appartiene a una generazione di quarantenni allevati a scorpacciate televisive di anime giapponesi tanto in voga negli anni ottanta. E così, a parte l’ambientazione capitolina, il suo film si presenta in prima battuta come omaggio esplicito, à la manière de Tarantino (splatter compreso), a quell’universo di eroi e in particolare a uno dei suoi più noti, Jeeg Robot: pure chi al tempo lo snobbava ne ricorderà la roboante sigla italiana che faceva: “Jeeg va, cuore e acciaio, / cuore di un ragazzo che / senza paura sempre lotterà”. Ai fan del supereroe il film fa l’occhietto già dai criptici ideogrammi che adornano i titoli di testa. Per Jeeg Robot stravede nel film la protagonista Alessia, in preda a un delirio fantastico che la sottrae a una realtà di miseria e violenza facendole vagheggiare l’incontro con il supereroe preferito.
E qui finisce il fumetto e comincia un’altra storia, non di eroi ma di “borgatari”, di periferie urbane affollate di prepotenti e di perdenti. È la Tor Bella Monaca dove, al pari di Alessia, vive il protagonista Enzo Ceccotti – nome che più romano non si può – rimpinzandosi di budini preconfezionati e film pornografici. Un solitario che vive di furtarelli e va ripetendo “io non so’ amico de nessuno”, in un mondo dove amicizia e amore sono spesso indelebilmente macchiati dalla violenza. Trasformato in invincibile uomo d’acciaio da una caduta nel Tevere tra fusti di rifiuti radioattivi, poi eroe mediatico suo malgrado in virtù di un video virale su You Tube, Enzo dovrà vedersela con lo spietato Zingaro: a ben guardare pure quest’ultimo uno sfigato che, avendo fallito di sfondare in televisione, cerca di farsi strada mettendosi in affari criminali con i “napoletani”.
L’originalità e il garbo del film sono tutti qui, nell’innesto riuscito, amaro e ironico insieme, dell’immaginario fumettistico in un’ambientazione al contrario densa di riferimenti alla cronaca e al paesaggio urbano e sociale di Roma, abilmente inquadrata dalla prospettiva delle sue periferie. Dalle torri di edilizia popolare di Tor Bella Monaca (non una periferia qualunque, ma un simbolo di degrado urbano e di possibile riscossa civile, che gli sceneggiatori e il regista mostrano di ben conoscere) fino ai luoghi della Roma storica minati da discariche velenose, criminalità organizzata e attentati terroristici.
Ma sbaglia chi veda una vena neopasoliniana nel film, e in Enzo un moderno Accattone. I luoghi, i personaggi e i tic di una riconoscibile romanità, culminante nell’apoteosi dello stadio Olimpico straripante di tifosi per il derby tra Roma e Lazio, funzionano come ingredienti di un cinecomic all’italiana (che non vale la dieta ingrassante imposta all’attore protagonista Claudio Santamaria, manco fosse De Niro in Toro scatenato, né il diluvio di premi per la migliore interpretazione collezionati ai David di Donatello) diretto con mano abile e gusto per la citazione da un autore già pronto al salto nella produzione seriale. Ovviamente sullo sfondo di una “città eterna” sempre più dolente e in attesa di qualcuno che arrivi a salvarla.
Articolo pubblicato sul n. 2/2016 de Il Friburghese, periodico del Centro Culturale Italiano di Friburgo